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Paolo Lugarini

RSPP, Consulente Sicurezza, H&S manager
Operatore della Sicurezza certificato AiFOS

60° anniversario della catastrofe di Mattmark: 1955-2025

Pubblicato il 30 agosto 2025

Immagine dell'articolo: 60° anniversario della catastrofe di Mattmark: 1955-2025

Oggi ricorre il 60° anniversario della catastrofe di Mattmark.

Erano le 17:15 di lunedì 30 agosto 1965, quando dal ghiacciaio dell’Allalin si staccarono più di due milioni di metri cubi di ghiaccio e detriti che travolsero il cantiere per la costruzione della diga di Mattmark, situata nella valle del Saastal, nel Canton Vallese, a pochi passi dal confine con l’Italia.

Nel commemorare tutte le vittime, ne ricordo una in particolare, dato che porto il suo nome: Paolo Figliè, 23 anni, mio zio di secondo grado e unica vittima di Carrara (MS), città d’origine della mia famiglia paterna.

Paolo era un tornitore che lavorava nelle officine del cantiere per guadagnarsi da vivere e costruirsi un futuro. Rientrò dalle ferie in anticipo per permettere a un suo collega di partire: ciò che si definisce “destino” o, altrimenti, “era la sua ora”.

Meno nota del disastro del Vajont del 1963, in cui persero la vita 1.910 persone, e di quello di Marcinelle del 1956, dove ne morirono 262, di cui 136 italiani, la tragedia di Mattmark fu altrettanto drammatica, anche per i numerosi segnali premonitori completamente ignorati.

I morti accertati furono 88: 56 erano immigrati italiani, gli altri svizzeri o di altre nazionalità (spagnoli, tedeschi). La sciagura rappresenta ancora oggi la peggiore tragedia della storia della Svizzera. La provincia più colpita fu Belluno, con 17 vittime, seguita dal comune di San Giovanni in Fiore (CS), che perse 7 uomini. Erano connazionali in cerca di opportunità.

I presupposti della catastrofe

Vediamo il quadro dentro il quale sono maturati i presupposti, legati tra loro da un sottile filo invisibile, che hanno contribuito a creare le condizioni per l’originarsi del terribile evento.

Il passaggio dalla società rurale a quella industriale che ha reso l’opera indispensabile e urgente

A partire dalla fine dell'800, il Canton Vallese avviò la propria industrializzazione grazie alle ferrovie, ai trafori e all’impiego dell’energia idroelettrica. Ciò fu reso possibile dalla manodopera straniera (in gran parte italiana, pari a circa il 65%) e dall’attività delle imprese.

La Svizzera, povera di carbone, concentrò i propri sforzi sull’idroelettrico per correre verso l’industrializzazione. Il cantone Vallese, che possedeva il 62% dell’intera superficie dei ghiacciai svizzeri, produceva energia per l’intera Confederazione, facendo emrgere un nuovo sistema economico fondato anche sulla presenza della manodopera straniera.

La costruzione dell’impianto idroelettrico di Mattmark avrebbe dovuto portare notevoli vantaggi alla popolazione locale. Fu progettato e realizzato nonostante l’inadeguatezza delle infrastrutture e delle abitazioni della zona.

I grandi cantieri diedero un forte impulso anche alla medicina del lavoro.

Il ritardo dei lavori

L’impresa aggiudicataria poté iniziare i lavori solo nel 1960, nonostante il progetto preliminare fosse stato depositato nel 1954. Le cause furono controversie tra imprese concorrenti e ritardi nelle concessioni delle amministrazioni locali, per disaccordi ed espropri.

Largo uso di manodopera straniera in condizioni precarie

Il numero massimo di addetti (fra 700 e 1.400) si raggiunse nel quinquennio tra il 1961 e il 1965, con picco nel 1963. La difficoltà nel reclutare manodopera a condizioni vantaggiose rese necessario ricorrere a un’alta percentuale di stranieri (73% da nove nazioni diverse).

Gli stranieri si adattavano a più facilmente condizioni abitative precarie ed erano disposti a lavorare 15–16 ore al giorno, domeniche comprese, con temperature notturne che scendevano fino a –30°C. I problemi principali riguardavano i ritmi di lavoro, la qualità delle opere e le sistemazioni abitative subappaltate a diverse decine di imprese.

L’inverno era lunghissimo e, a quota 2.000 metri, si lavorava a pieno ritmo solo 5–6 mesi l’anno. Nel cantiere di Mattmark si lavorava 24 ore su 24 per 6 giorni su 7. La settimana tipica oscillava fra le 59 diurne le 55 ore notturne, straordinari esclusi. Il riposo era limitato a un’ora. Nonostante i controlli, molti lavoravano anche la domenica e “se avevi voglia, anche 15-16 ore consecutive”. L’interruzione per il riposo era ridotta a un’ora. Si doveva consegnare il cantiere in tempo per evitare pesanti penali.

Rischi ambientali elevati

Polvere, traffico incessante di camion, temperature rigide e tormente di neve rendevano pericoloso il lavoro. I minatori che scavavano i 51 km di gallerie, che servivano per incanalare le acque, dovevano fare i conti anche con le venature di gas.

Gli archivi non riportano tutti gli incidenti avvenuti. A Mattmark il pericolo non derivava soltanto da imprudenze ed errori umani: sulle Alpi erano accadevano anche valanghe e smottamenti. Mentre per le vie di comunicazione fu prestata grande attenzione, lo stesso non avvenne per la sicurezza degli operai. Diverse valanghe colpirono già prima mensa e baracche.

Una consapevolezza tardiva

L’opinione pubblica svizzera prese coscienza della precarietà delle condizioni nei cantieri solo dopo Mattmark. La questione fu centrale nei rapporti tra Svizzera e Italia già dagli inizi degli anni Sessanta.

La richiesta italiana di equiparare i diritti dei lavoratori ai livelli di Francia e Germania non fu accolta: la parificazione arrivò solo nel 1977.

Il conflitto costi–sicurezza

Le grandi opere del dopoguerra subirono imprevisti che ne dilatavano tempi e costi. Le norme di sicurezza erano ancora agli albori, arriveranno solamente negli anni ‘70; per contenere le spese si accelerò l’esecuzione, aumentando la manodopera e derogando alle norme di sicurezza.

Dal 1964 l’invaso iniziò a produrre energia, tuttavia i tempi erano ancora più stringenti: lo straordinario fini per superare il 50% dell’orario giornaliero. Per contenere ulteriormente i costi, i tempi di percorrenza dalle baracche al cantiere furono esclusi dalle ore di lavoro. Si ridussero i costi per alloggi e cibo degli operai. Le baracche dei lavoratori meno specializzati furono costruite a quota 2.000, insieme alla mensa da 600 pasti a turno e alle officine meccaniche per il pronto intervento dei mezzi in panne.

In prossimità vi era anche il piazzale nel quale sostavano, durante il cambio turno, le navette per il trasporto degli operai da e verso il cantiere.

La discriminante nella scelta del luogo in cui far sorgere l’intero complesso fu certamente economica: gli edifici furono costruiti esattamente in linea diretta con le pendici del ghiacciaio dell’Allalin, mettendo in secondo piano l’incolumità dei lavoratori.

Un’opera da costruire a ogni costo

Furono svolti molti studi per garantire la sicurezza dell’impianto: sondaggi geologici, calcoli geofisici, trivellazione e perizie glaciologiche. Lo stesso non avvenne per l’ubicazione delle baracche né per eventuali vie di fuga in caso di slavina; per i lavoratori non fu adottata alcuna misura di prevenzione. Le abitazioni furono collocate “a occhio” sotto la lingua del ghiacciaio, nonostante nel 1949, a soli 100 metri di distanza, fossero morte dieci persone per un distacco minore.

L’area era ritenuta poco sicura da secoli: inondazioni e incidenti ricorrevano tra il XVI e il XX secolo. C’erano già state più di 20 inondazioni del lago, fino all’alluvione del 1633 che provocò la morte di metà della popolazione del paese sottostante, Saas-Almagell. La popolazione della valle considerava quella zona come “maledetta”.

La diga di Mattmark fu costruita a monte proprio per evitare danni all’impianto idroelettrico. Questo però non giustificava la costruzione di baracche ed officine in “linea di tiro”.

Il ghiacciaio si muoveva da settimane

Prima delle ferie alcuni operai avevano segnalato il movimento del ghiacciaio, ma non furono ascoltati. Un grande blocco di centinaia di tonnellate cadde, danneggiando un ripartitore dell’acqua e una linea elettrica ad alto votaggio, fermandosi a 100 metri dalle baracche. Nonostante ciò non si ordinò lo sgombero. Il sabato precedente un altro blocco, ancora più grande, cadde fermandosi sul precedente. Questo successe una settimana prima della disgrazia.

Cadute di rocce e di ghiaccio, così come slavine, erano quotidiane. Né ingegneri né capi turno presero provvedimenti, anche se qualcuno nutriva dubbi da tempo sulla stabilità del ghiacciaio.

Il clima anomalo del biennio 1964–65

Caldo e piogge insistenti furono segnali e contribuirono al distacco. Nonostante queste anomalie, non si sospesero i lavori né si sgomberarono baracche e mensa sotto il ghiacciaio.

L’ironia per esorcizzare la paura

Chi lavorava nelle officine di fronte al ghiacciaio probabilmente scherzava per esorcizzare la paura, convinti che la tecnica umana potesse prevalere sulla natura.

Eppure, qualche esperto di montagna manifestò i suoi timori. Un friulano, figlio di una guida alpina e maestro di sci, se lo sentiva. Cercò in tutti i modi di allarmare i suoi colleghi di lavoro. Diceva che «quando un ghiaccio fa il vuoto sotto è pericoloso». Rimase tutta la giornata a debita distanza, appena vide staccarsi pezzi di montagna scappò e si salvò.

Molti erano friulani e bellunesi, alcuni sopravvissuti al Vajont, e il ricordo del 1963 tornò più volte in mente.

Quel maledetto lunedì 30 agosto 1965, ore 17:15

«Mentre stavo lavorando nel mio studio tecnico […] ho sentito un enorme frastuono e ho visto in pochi secondi scivolare a valle. Presumo 250-300.000 metri cubi di ghiaccio […] la catastrofe è avvenuta mentre gli operai del turno di notte stavano ancora dormendo. […] Penso che i dispersi, se ce” n’è ancora qualcuno in vita, non sono meno di 35-40.»

Questa è una delle prime testimonianze dirette raccolte la sera stessa da un ingegnere che lavorava nello studio tecnico situato sopra la morena sud del ghiacciaio. Vide dall’alto la massa travolgere i lavoratori presso baracche, mensa e officine, in pochi secondi.

Quando la nube si dissolse, al posto del cantiere pieno di vita, emerse un enorme letto di ghiaccio e detriti avvolto da un silenzio totale.

La frana si annunciò con una folata di vento gelido, come confermato da vari sopravvissuti: «Mi sono voltato. Sembrava che la montagna di ghiaccio si staccasse dal cielo. La ventata, scaraventandomi per terra, mi ha salvato».

La notizia arrivò in Italia tramite l’edizione notturna del telegiornale Rai, con un breve accenno a un grave incidente indicando il Cantone Vallese nella carta geografica.

Alcuni si salvarono per caso: chi era stato mandato in direzione, chi era sceso a prendere un ricambio, chi aveva fatto cambio turno o pronto a valle per salire per il turno delle 18.

La speranza iniziale di trovare superstiti sotto la montagna di ghiaccio svanì il giorno seguente.


Desidero ringraziare:

– Toni Ricciardi, storico delle migrazioni all’Università di Ginevra e autore del libro “Morire a Mattmark – l’ultima tragedia della migrazione italiana”, da cui ho potuto attingere e conoscere dettagli e testimonianze dei superstiti.

– L’Associazione Bellunesi nel Mondo, custode della memoria, per le numerose iniziative realizzate negli anni volte a mantenere vivo il ricordo del tragico evento e delle vittime.

– Comites Vallese, Associazione ItaliaVallese e Comitato “Mattmark 1965–2015” per l’organizzazione degli eventi commemorativi del 50° anniversario, tra cui la mostra fotografica “Mattmark, Tragedia nella Montagna” presso la Biblioteca del Senato, con l’adesione del Presidente della Repubblica italiana.

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